Dottoressa Carmen Valese





-Quando sei nata e dove?

A Napoli, il 12 settembre 1964.

-Come passasti la tua infanzia?

La mia primissima infanzia la passai in Sardegna, e poi in Umbria. Fu un’infanzia serena, in un contesto familiare tranquillo. Mio padre era ufficiale dell’esercito. Mia madre casalinga. Avevo una sorella più grande che oggi vive a Roma. Fino a circa sette anni abitai in Umbria. Fu un periodo meraviglioso, tranne per il fatto che mia madre soffriva di depressione. Ne soffri per dieci anni circa, fondamentalmente per via del distacco dalla famiglia a cui era molto legata. La depressione è durata fino ai miei sette anni, quando ritornammo a Napoli. Ti dirò, all’inizio tornai controvoglia, perché eravamo abituati a una vita serena e ordinata, anche rigida. Mentre Napoli è una bolgia, ma alla fine mi sono ambientata alla grande.

-Quali furono i tuoi studi?

Frequentai il liceo scientifico e poi l’università Federico II di Napoli, laureandomi nel ’92. Contemporaneamente ho fatto il corso di Infermiera Volontaria della Croce Rossa militare. Fu un corso di due anni, anziché tre, perché ero iscritta a medicina. Dopo il diploma continuai a rimanere come forza attiva e per cinque anni ho tenuto un corso di ippoterapia e uno di elisoccorso.

-Come ti venne in mente di iscriverti a medicina?

Vidi una volta al cineforum della mia parrocchia un film sul dottor Schweitzer e da quel momento ho sognato di diventare medico missionario. Avevo 9-10 anni. Quella visione non mi mollò mai. Volevo diventare “missionaria laica”, soprattutto in Africa e in India. C’era anche il precedente di mio padre che aveva lasciato medicina al quarto anno distudi. Lasciò perché troppo preso dalla pratica in sala operatoria,voleva infatti specializzarsi in chirurgia,ma il tempo fece si che restasse troppo indietro con gli esami, così fu costretto a lasciare per intraprendere la carriera militare. Conserva ancora questo rimpianto per non avere concluso quel percorso.

-L’idea era sempre quella di essere missionaria laica?

Sì, la mia spinta non era cambiata. La mia intenzione era sempre laurearmi e partire come missionaria laica.

-Un altro evento che incise sulla tua scelta?

Quando io avevo 17 anni mia madre sviluppò un tumore al colon. Era stato scoperto per caso, operato per tempo, ma mi rafforzava nell’idea di rendermi utile per le persone che soffrono. Inoltre, quell’evento mi aveva fatto nascere il desiderio di fare la gastroenterologa

-Come furono gli anni universitari?

La facoltà era estremamente dura, tostissima. C’erano ancora i professori vecchio stampo. Avevo letteralmente il terrore degli esami. Ho sempre temuto di non essere all’altezza, di deludere chi mi esaminava.

-Cosa non ti piaceva?

L’atteggiamento dei professori verso studenti e tirocinanti. Un atteggiamento arrogante e tirannico. C’erano anche privilegi e favoritismi in abbondanza.

-Finché ti laureasti..

Era il 29 luglio 1992. Non pensavo ce l’avrei mai fatta.Invece ebbi anche 110/110!! Io volevo prendere la specializzazione in gastroenterologia. La pratica in ospedale si fa dal quinto anno in poi, solitamente. Io però avevo aggiunto un esame soprannumerario.. quello di “gastroenterologia”. Era da quando mia madre era stata male che volevo studiare la gastroenterologia. Per poterlo sostenere, andai a chiedere al professore che testo dovessi usare. Lui mi rispose “chi vuole fare il corso con me deve frequentare il reparto”. E io non vedevo l’ora di iniziarlo. Quindi ero in reparto fin dal terzo anno.I primi due li avevo fatti grazie al tirocinio come infermiera di CRI,e già avevo avuto il primo contatto con il malato,dalla pulizia personale alla pratica della terapia,all’uso di tecniche infermieristiche che l’Università non t’insegna ma che un medico deve comunque saper fare(prendere una vena,mettere un catetere..).

-Quindi arrivasti alla laurea con già alcuni anni di pratica di reparto.

Sì, e a quel punto volevo iscrivermi alla scuola di specializzazione. Ma quell’anno ci fu un cambiamento che per me fu drammatico. Per coloro che sarebbero stati ammessi alla specializzazione era previsto un pagamento in borse di studio. Fino a quel momento i posti erano 8-9. Ma adesso che erano a pagamento, il loro numero fu ridotto. Il primo anno che feci l’esame io i posti si erano ridotti a  2 e io arrivai.. terza. Il secondo anno i posti erano tre.. e io arrivai quarta.

-Che “coincidenza…

Già, nel frattempo, prima del secondo tentativo, nel marzo ’93 mi ero sposata. E sempre prima del secondo tentativo.. due mesi dopo il matrimonio, fu diagnosticato un tumore a mio marito. Un tumore alla tiroide. Un carcinoma midollare della tiroide.

-Deve essere stato un evento sconvolgente..

Fu come se tutte le tegole del mondo mi fossero cadute sulla testa. Tentai lo stesso il concorso, dove arrivai quarta su tre.
Contemporaneamente feci il concorso per medicina generale. C’erano 3500 candidati per 300 posti. Arrivai 120sima. Il concorso lo superai nel ’94 e nel ’96 avevo finito. Mio marito stava male, non avevo il tempo e avevo necessità di mettermi a lavorare.

-Fu un brutto colpo quello dei due concorsi andati a male?

Lo fu soprattutto per la profonda delusione. Erano anni che ero interna in quel reparto. Sapevo di meritare di entrare, e ogni volta essere collocata nel posto immediatamente fuori a quelli previsti sapeva di una beffa. Io provai a contestare. Ma mi fu fatto chiaramente capire che dovevo attendere il mio turno.Ma io non avevo tempo da perdere,né potevo pagare il mio ingresso in specializzazione…

-Pagare?

Pagare… e anche oggi è così. In gran parte dei corsi di specializzazione si entra se paghi. Mi fecero intendere, anche che ci sarebbe stata qualche possibilità se avessi trovato uno sponsor.

-Che si intende per sponsor?

Per sponsor si intende una casa farmaceutica che ti paga gli anni di specializzazione..

-Ottimo! Proprio il modo per cominciare questo percorso con la schiena dritta e in piena indipendenza… Quindi, in pratica, per entrare in una scuola di specializzazione….

O sei il figlio di qualcuno dello stesso ambiente universitario,o tiri fuori una bella somma, O sei sponsorizzato da una casa farmaceutica ... quarta  ipotesi,rara, sei un genio assoluto.

-A quel punto optasti per medicina generale.

Con questo tipo di concorso potevo avere dei punti in graduatoria, anche in breve tempo, che mi sarebbero serviti per diventare titolare di guardia medica e di medicina di base. Mi specializzai nel ’96.

-E poi che accadde?

Dal 96 al 2000 ero medico generico, però potevo lavorare solo a livello privato.   avevo poco tempo.. perché nel frattempo stavo dietro a mio marito, a mia figlia, e a Di Bella.

-Quando incrociasti Di Bella?

Nel 1994, per via di mio marito. Per caso mia sorella aveva saputo dalla madre di un compagno di suo figlio che c’era una persona, a Roma, che stava portando avanti questo metodo. Quella donna diede  a mia sorella il nome del dottore che praticava il MDB a Roma.

-Tuo marito ha mai fatto la chemio?

No, non l’ho mai fatto curare con la chemio. Il suo era un tumore chemio resistente.

-Perché non gli facesti fare la chemio?

La detestavo. Ero già stata in un reparto di oncologia(sia quando studiavo medicina, sia quando mio marito ha dovuto fare dei test per la sua malattia). L’impatto fu pessimo. La sofferenza, lo stato di prostrazione, l’assoluta distruzione dell’essere umano. Il prezzo che comporta la chemioterapia era troppo grande. E poi.. alcuni tumori sono chemio resistenti, come quello che aveva mio marito?

-Quali sono i tumori chemio resistenti?
Quelli del pancreas,del fegato,dello stomaco e del colon.

-Ma in questi casi viene fatta comunque la chemioterapia?

Naturalmente..

-E cosa succede?

Inizialmente può anche esservi l’impressione di una risposta. Ma al secondo ciclo già non c’è più risposta. Per due motivi fondamentali. Il primo è la discontinuità della terapia,indispensabile per evitare ulteriori compromissioni dell’organismo per l’estrema tossicità dei farmaci utilizzati; il secondo motivo è conseguente al primo. Cioè,dopo l’interruzione terapeutica,si verifica una vera e propria riorganizzazione delle cellule tumorali,con tanto di modifica strutturale e quindi antigenica,per cui non potendo continuare con  lo stesso schema cambiano cocktail chemioterapico, in modo da attaccare il tumore in un altro modo.

-Comunque prima voi faceste due interventi chirurgici.

Il carcinoma midollare della tiroide è quello che se preso in tempo chirurgicamente ti salvi. Però il tumore si era già esteso e l’intervento ebbe solo un effetto parziale.
Il problema però non era solo localizzato al collo, e cercai in tutto il modo medici che potessero intervenire. Vi erano metastasi ovunque. Gli feci fare anche una chemioembolizzazione al fegato presso l’Ospedale Bellaria di Bologna. Ma nonostante un parziale miglioramento, la situazione permaneva gravissima. Finché incontrai il Metodo Di Bella.

-Racconta come avvenne questo “incontro”.

Mia sorella mi diede il contatto con questo medico che si chiamava Paolo Nola. Nel ’94 andammo a Roma e lui ci ricevette alle 24:30. Quell’uomo mi fece un’impressione meravigliosa. Aveva lavorato con Luigi Di Bella. Parti dal presupposto che io non capivo nulla di questa terapia. Lui mi diede le delucidazioni possibili. Lui era stanco morto. Era l’epoca in cui il Metodo aveva cominciato ad avere larga diffusione, anche se non era ancora esploso in tutta Italia. Ricordo che cercò di essere molto rassicurante con mio marito e che gli disse che lo avrebbe seguito lui.

-Come andò con i farmaci? Naturalmente dovesti fare i conti anche tu con uno dei problemi principali di questa terapia.. il costo dei farmaci..

Non fu facile. Il primo mese pagammo un milione delle vecchie lire. All’epoca non avevo ancora un mio stipendio. Non ero ancora entrata nella guardia medica e non ero diventato medico generico. Facevo un corso di formazione, dove venivo pagata, ma poco. In pratica la cura la pagammo con lo stipendio di mio marito che era militare dell’esercito. Fu tosto sostenere quelle spese. Fino all’ultimo le medicine dovemmo pagarle integralmente noi.

-Quali furono gli esiti?

Per un po’ stette bene. La malattia restò sotto controllo fino a quando li subì un intervento, in quanto c’era stato una recidiva ai linfonodi laterocervicali che stava compromettendo la dinamica respiratoria.. Va detto che quando inizia il Metodo Di Bella, la malattia era in uno stato avanzato. Il corpo era pieno di metastasi. La prognosi data a mio marito era al livello di.. “giorni”. L’intervento fu fatto al collo, in virtù di un aumento dei linfonodi in quella regione, aumento che gli impediva  di respirare.

-Che hanno era?

Era il 1997. Mio marito fu in cura dal 1994 al 1998.

-L’intervento scatenò reazioni collaterali?

L’intervento in sé e per sé non è un intervento particolarmente complesso. Fu il post operatorio il dramma. Nella degenza post operatoria gli erano state somministrate alte dosi di cortisone. Quando fu dimesso, una mattina lo trovasti per terra nel bagno in un lago di sangue. Non riusciva a parlare e batteva il pugno sul pavimento per chiedere aiuto. Ricordo che corsi al piano di sopra per capire cosa fosse quel “rumore”che veniva dal piano superiore. Il ricovero fu immediato come la diagnosi di ulcera gastrica perforata con fistolizzazione pancreatica. Probabilmente indotta dal cortisone assunto nel post-operatorio é un potentissimo antinfiammatorio,ma anche gastrolesivo. Venne ricoverato in una clinica  e un tuo amico gastroenterologo ti disse che doveva essere immediatamente operato, con la premessa che poteva anche morire durante l’operazione. Infatti il livello di anemia era al massimo per l’emorragia interna.  Feci dare l’estrema unzione a mio marito prima dell’intervento. L’intervento durò sette ore e, grazie alla grande bravura del chirurgo, mio marito si salvò per un pelo. Ma da quel momento inizi un forte declino, che lo  porterà progressivamente alla morte. Furono mesi da incubo, anche perché questo si associava, come ti dirò con la fase boom del Metodo Di Bella.

-Tu mi hai raccontato di tua figlia. Quando decidesti di concepirla? Come mai una scelta del genere viste le condizioni di tuo marito?                  

Fu una mia iniziativa. Volevo che lui provasse la gioia di essere padre. Sai quelle persone nate per essere padri? Lui era così. Aveva una calamita eccezionale per i bambini dovunque andava li attirava. Fu anche un cammino di fede che ci rese forti in questa scelta. Un giorno gli dissi: “Finché c’è vita c’è speranza. Possiamo comunque dare al mondo una vita”. Mia figlia nacque nel ’95. Fu un padre premuroso. Il primo giorno di scuola, quindici giorni prima della sua morte, volle accompagnarla a scuola. Pesava ormai solo 30 kg…

-E poi il giorno della morte..

La notte.. fu una notte. Lui si svegliò durante la notte, manifestando un grandissimo stato di benessere. Diceva di volersi alzare. Erano giorni che non lo faceva. Però non si alzò. E rimase seduto nel letto, dicendo che non sentiva il proprio corpo, che non sentiva dolori, che non sentiva nulla. E mi indicava entità… entità non umane… che lui diceva di vedere. Sconvolta, chiamasti i tuoi genitori e suo padre e, tutti insieme, iniziaste a pregare per accompagnarlo all’ultime istante di vita, che giunse presto.

-A quel punto ti lasciasti andare?

No. Capii che dovevo reagire subito, per non farmi travolgere. La mattina dopo portai mia figlia a scuola e organizzai il funerale. E inoltre il mondo Di Bella.. mi aveva praticamente travolto.

-Eravamo rimasti al fatto che tuo marito stava seguendo da qualche anno la terapia Di Bella..

Sì. Siamo arrivati al 1997, in pieno boom del caso Di Bella. Il caos era tale che era quasi pressoché impossibile mettersi in contatto telefonico con il professore e con i medici che praticavano la terapia Di Bella. In quel periodo,  quel dottore che si occupava di mio marito, Paolo Nola mi telefonò: “Devi aiutarmi. Qui a Roma siamo in 4/5 medici che pratichiamo il Metodo Di Bella, ma la gente è sempre di più, sia da tutto il Lazio che da altre regioni del Sud. Non riusciamo a fronteggiare tutto questo. Dacci una mano”.
“In che modo?”.. risposi.
“Mettiti al lavoro anche tu”,
“Ma come? Non è il mio campo. Non esiste proprio”.
“Sei un medico, hai un malato in casa, stai avendo l’esperienza diretta, e conosci il metodo. Lo puoi fare”.
“No. Non sono all’altezza. Non sono pronta. Non sono oncologa.”
“Anche altri medici prescrittori non sono oncologi. Si tratta di una terapia biologica che qualunque medico può applicare”.
Ma rifiutai risolutamente.
Un giorno alcune persone bussarono alla mia porta. Ciò che mi dissero quanto aprii per chiedere cosa volevano, mi tramortì.. “Il dottore Nola di Roma ci ha detto che possiamo venire da lei per essere curati con la cura Di Bella”. Rimasi impietrita. A quel punto avevo davanti una scelta. O chiudevo la porta e salutavo quelle persone.  O le facevo entrare. Le feci entrare. Dissi loro che tutto ciò era una cosa nuova per te, ma che, se necessario, avrei fatto il possibile per aiutarli. Da lì incominciò tutto.

-Cominciò il tuo viaggio..

Mi imbarcai in una cosa più grande di me, con tanti dubbi, con la difficoltà di non potere comunicare –visto il periodo di caos- con i medici che già lo prescrivevano. Mi sentivo inesperta. Iniziai a studiare tutto ciò che riguardava i tumori. Il giorno ricevevo i pazienti e la notte studiavo. Mio marito, che era allettato, rispondeva alle chiamate. In pratica mi faceva da segretario. Cominciò, quindi, questo andirivieni pazzesco. Davanti a casa mia c’era sempre un sovraffollamento di persone, che dormivano in macchina, lanciavano cartelle cliniche oltre il cancello. Diverse volte dovettero intervenire i carabinieri, perché la presenza di tutte quelle persona creava un ingorgo stradale. L’assembramento certi giorni mi rendeva difficile anche l’uscire di casa.

-Ti trovasti in trincea, vivendo –in scala minore- quello che stava vivendo il professor Luigi Di Bella. Chi non ha vissuto quegli anni, non

credo potrà fino in fondo capire il vostro grado di dedizione, di sacrificio.
In quei mesi, nel Sud, oltre a me, subentrarono anche altri  medici. Ma per non pochi di loro il Metodo di Bella era un business. Furono tanti quelli che cercarono di trovare il proprio tornaconto sfruttando l’irrompere di questo fenomeno.

-Tu quanto ti facevi pagare?

Non mi facevo pagare nulla Tutte queste visite le facevo senza remunerazione.

-Perché?

Perché così faceva il professore Di Bella. Se non si faceva pagare lui che era quello che era. Con che faccia avrei potuto farmi pagare io?

-Quando lo incontrasti?

In quel periodo c’erano numerose conferenze e convegni che erano tenuti dal professore Luigi. In una conferenza, che ebbe luogo a Roma, nel 1999credo, c’erano medici di tutta Italia. Dopo questa conferenza ci fu una cena. Nel corso di questa cena venne Adolfo Di Bella e mi chiese di seguirlo fino al tavolo del professore. Io ero in piedi, il professore era a capotavola. Una tavola rettangolare, dove erano seduti tutti i professori che avevano partecipato al convegno. Adolfo fece presente al padre chi ero io. Lui mi lanciò una occhiata e disse:
“Ho sentito dire un gran bene di lei. Può venire al mio studio quando vuole”.
La settimana dopo andai, e cominciai a frequentare il suo studio.

-Con che frequenza ci andavi?

Non potevo andare sempre. Avevo una bambina piccola e poi c’erano i pazienti che avevano bisogno del Metodo Di Bella. Quando andavo –circa una volta ogni mese e mezzo o ogni due mesi- ci stavo circa una decina di giorni. Pernottavo in un albergo vicino e stavo dalla mattina alle sette fino a quando si finiva, anche le dieci di notte.

-Pensavo al tuo non farti pagare. Quanto durò questa tua scelta?

Fino a quando non fui.. in un certo senso.. “autorizzata” dal professor Luigi. Mi trovavo nel suo studio. Nel corso di uno di questi periodi  in cui stavo presso di lui. Un giorno, c’era una paziente che, alla fine di una visita, gli chiese quanto fosse l’onorario. Lui rispose.. “Io non prendo onorario essendo un pensionato e non ho bisogno di prendere niente (oltre la pensione). Se volete, comunque, potete lasciare una offerta per la ricerca”. Fuori dalla stanza, c’era infatti una cassetta dove potevano essere fatte offerte per l’attività di ricerca, senza essere visti da nessuno. Comunque.. questo era quello che diceva sempre.. Quel giorno però aggiunse “la dottoressa, invece, che è una madre di famiglia, ha diritto a prendersi un onorario, quindi la autorizzo a farlo quando tornerà a Napoli”.

-Ogni momento.. arriva  a costituire un frammento di una quotidianità. Penso a quanti momenti entrano in gioco. A quanti episodi. Che tipo di persona era Luigi Di Bella?

Una persona molto rigida ed esigente verso se stessa. Aveva una considerazione minima dei medici. Li considerava superficiali e… nei confronti dei pazienti aveva una infinita pazienza. Ascoltava moltissimo. Visitava in una maniera  del tutto sui generis. Aveva un profondo rispetto dell’intimità delle persone. Non svestiva mai un paziente.

-Secondo te il non svestire il paziente derivava anche da altre motivazioni?

Lui non voleva che la persona potesse mai sentirsi umiliata. Spesso capitava che un paziente potesse avere segni sul corpo o cicatrici,vere e proprie mutilazioni (basti pensare una mastectomia) ad esempio. E poi non faceva distendere il paziente, non usava il lettino. Lui visitava il paziente facendolo stare seduto su una poltroncina.

-Dicevi che ascoltava moltissimo..

Ascoltava moltissimo.. e faceva ogni genere di domande. Anche il più piccolo dettaglio lo interessava. Alcune volte i pazienti erano perplessi davanti a certe domande che sembrava avessero poco o nulla a che fare con il loro specifico problema. Solo alla fine, si comprendeva come quelle domande avessero un collegamento con i singoli casi, e che avevano la loro importanza. Erano visite lunghissime, accurate, molto particolari.

-Le persone naturalmente portavano i precedenti esami e referti no?

Sì… la gente veniva con pacchi di radiografie, lastre, cartelle cliniche. Il mio ruolo era quello di sintetizzare tutto. Questo perché il Professore era stanco e aveva tantissimo da fare, quindi non si poteva sobbarcare ogni singolo aspetto della visita. Quindi, io gli facevo una sintesi di tutta la storia clinica del paziente in esame, poi lui procedeva alla sua lunghissima visita, dopodiché dava il protocollo di cura.

-Raccontami altri particolari…

Lui (parlo sempre di quando ero io lì, di quello che vedevo io) non si sedeva mai dietro la scrivania. Prima di visitare chiedeva il permesso. Se erano presenti marito e moglie, chiedeva al marito il permesso di visitare la moglie. Rimaneva in piedi mentre visitava. Aveva approcci, che ormai non appartengono più quasi a nessun medico; ad esempio, per “ascoltare” le spalle, non usava il fonendoscopio, ma metteva direttamente l’orecchio sulle spalle.. Quando aveva finito la visita, il paziente rimaneva seduto sulla poltroncina. Lui, sempre rimanendo alzato, si metteva quasi di dietro al paziente, al lato destro della scrivania. A quel punto rimaneva diversi minuti fermo, con la testa china sul petto, e si massaggiava la fronte con la mano destra. Molti pazienti erano perplessi in quei momenti, non capendo cosa esattamente stava succedendo, se per caso si stava sentendo male o se si trattasse di qualche altra cosa.

-E poi…

E poi, passati quei minuti, esprimeva il suo parere. Cominciava magari dicendo cosa pensava dell’intera situazione e, non di rado, indicava quello che c’era di errato nelle diagnosi che il paziente aveva portato. Non so dirti quante furono le diagnosi che ribaltò c contestò in buona parte. Tantissime. Subito dopo passava alla terapia che il paziente avrebbe dovuto seguire. Lui dettava e io la trascrivevo. Solo negli ultimi tempi, quando ormai lui era spossato, la vista peggiorava,la prescrizione la scrivevo io,poi gliela  leggevo e lui mi dava l’ok, o faceva dei cambiamenti. Dopodiché firmava il tutto. Ricordo che.. dopo che aveva prescritto la terapia.. quasi sempre diceva… “Penso che questa terapia potrebbe giovarle, se la seguirà fedelmente. La guarigione non so. Ma grande giovamento sì”.

-Che grande umiltà…

Sì. Lui era sempre così. Molto discreto. E molto umile. Allo stesso tempo implacabile e paziente.. rigorosissimo e umile. Questi vari aspetti non cozzavano fra di loro. Ma coesistevano nella sua particolarissima personalità. A proposito di discrezione, attenzione, rispetto.. ricordo un dettaglio che a qualcuno potrebbe sembrare buffo. Quando i pazienti giungevano allo studio, prima di farli entrare, lui usciva, faceva entrare i pazienti e poi entrava lui.

-Lo hai mai visto davvero contento?

Molto raramente. Lui esternava pochissimo le emozioni, era sempre molto controllato. Però ricordo la sua contentezza quando vedeva pazienti di vecchissima data che lo ringraziavano.

-Sì è parlato delle sue battute fulminanti, della sua capacità di essere lapidario.

Lo era.. Un giorno venne un ragazzo ad intervistarlo. A un certo punto quel ragazzo fece una domanda sulla fede. E lui, invece di iniziare con tante parole, disse soltanto.. “Non posso parlare di qualcosa che è più grande di me”.

-Che poi a suo modo gli ha risposto… Senti, dimmi un’altra cosa che sorprendeva in lui.

Aveva una resistenza fisica eccezionale. Anche quando partecipava ai convegni, rimaneva sempre in piedi, senza sedersi un secondo. In quei contesti, non beveva un sorso d’acqua. Non si distraeva mai. Rimaneva concentratissimo dall’inizio alla fine.

-Da ciò che dici –e da quello che è presente anche in altre fonti- emerge la figura di una persona estremamente semplice, che viveva in maniera frugale, quasi spontanea.

Viveva davvero in una semplicità estrema. Aborriva tutto ciò che era moderno. Era un francescano. Non tornava a casa. La sua vita era nel luogo dove era anche il suo studio. Quando non visitava, stava nella stanza adiacente allo studio, dove faceva tutto, mangiava, studiava e dormiva.

-Come dormiva?

Dormiva seduto sulla poltrona, con la testa reclinata sul petto e le braccia appoggiate sul tavolo.

-Se penso a tutti i privilegi, le comodità, le coccarde e i distintivi di cui tantissimi hanno sempre voluto farsi circondare.. a volte delle autentiche mezze calzette. E come questo grande Uomo non ambisse a nulla.. quanto per lui contassero nulla privilegi, comodità, etichette, status.. Carmen, cosa era solito mangiare?

Era un patito dei legumi. Li mangiava praticamente tutti i giorni. Li faceva cucinare su una stufa che andava a legna. Ricordo ancora l’odore di legna bruciata che sentivo quando andavo a trovarlo.. E poi mangiava formaggi e pasta al pomodoro, pasta più che con sugo, con pezzi di pomodoro… Ah.. andava pazzo per il cioccolato bianco. Trovavo pezzi di cioccolata bianca da tutte le parti. Con lui c’erano sempre questioni perché mangiava poco. Le persone che gli volevano bene e che gli erano vicine cercavano sempre di insistere perché mangiasse di più. Ma spesso era una lotta.. Perché, come si è capito, quando non voleva fare una cosa, era quasi impossibile fargli cambiare idea. 

-Dimmi un’altra cosa che amava..

I fiori… Davanti alla casa c’era un’aiuola con fiori, e dietro, un orticello con giardino. Era solito, in taluni momenti, soffermarsi su un fiore in particolare e parlare di quel fiore, del suo profumo, dei suoi colori, di tutte le sue caratteristiche. Amava stare a contatto con i fiori. Era come se, in quei momenti, facesse uno stacco dalle sue giornate convulse.

-Già.. perché a un certo punto, i tempi diventarono sempre più.. convulsi.

Sì.. il boom del 97-98 rappresentò un vero momento di delirio. Si stava in una perenne full immersion, dal mattino alla sera. E io, quanto tornavo a Modena, mi trovavo la bolgia che mi aspettava a casa.

-Ricordi un caso particolare di cui vi occupaste, in quegli anni?

Sarebbero tanti. Ma uno mi è rimasto particolarmente impresso. Si trattava di un bambino. Quel bambino aveva un tumore cerebrale. Erano state tentate le terapie consuete.. l’iter.. (non capisco la parola Carmen), la chemioterapia,ecc. E tutto era risultato fallimentare. Quel bambino venne fatto ricoverare presso l’ospedale Pediatrico Santobono di Napoli. Quella fu l’unica struttura pubblica dove – tramite l’intervento del tribunale dei minori- sino ad oggi è stato ufficialmente applicato il metodo Di Bella. Dato che si trattava della zona di Napoli, il professore mi affidò la cura di questo bambino. Io dovevo andare ogni mattina presso quest’ospedale nel reparto di terapia intensiva della neurochirurgia, dove era ricoverato il bambino. Prima di tutto, comunque, dovetti presentarmi presso il direttore di reparto. Il direttore di reparto aveva ricevuto dal professore Luigi una lettera di referenze che garantiva sulla mia adeguatezza a seguire quel bambino presso il loro ospedale. Il giorno del primo incontro, il direttore di reparto mi diede in mano quella lettera; era un modo per farmi capire che aveva ricevuto quelle referenze.

-Hai ancora con te quella lettera? Riportami il suo contenuto.
La conservo ancora. Ecco il testo:
"ho conosciuto la dott.ssa Valese in occasione dell'assistenza ad un gravissimo paziente ,i cui dettagli può apprendere dalla Dott.ssa stessa. La gravità,l'età,il luogo e la localizzazione non avrebbero forse consentito la sopravvivenza del piccolo paziente se non fosse stato assistito dalle solerti terapie della Dott.ssa Valese.
In questi e in ulteriori occasioni ne ho potuto ammirare la cultura e la capacità professionale,che ritengo qualificare fra i migliori professionisti conosciuti fino ad ora,meritevole di validi elogi professionali". 

-E’ stato difficile agire in quella struttura?

Un po’ sì. I medici del reparto si sentivano letteralmente schiattare in corpo, quando dicevo loro di agire in un modo o nell’altro. Come tanti altri medici, avevano un profonda ostilità verso il metodo Di Bella.

-In che condizioni era il bambino quando iniziaste la cura e cosa accadde poi?

Il bambino era in condizioni drammatiche. Gli era stata diagnosticata una settimana di vita,aveva il respiratore automatico sempre inserito,perché non ventilava spontaneamente.Poi gli fu tolto. Invece ha vissuto ancora un altro anno. In quello stesso periodo il professore era ricoverato. Erano gli ultimi periodi della sua esistenza, e si succedevano i ricoveri. Quando andai a trovarlo era in uno stato di semincoscienza, capiva e non capiva. Appena mi vide, la prima cosa che mi chiese fu.. “come sta il bambino?” Io gli risposi “Il caso è molto grave”. E lui “lo so, lo so. Non ce la può fare”… Mi è rimasta impressa un’altra cosa del suo periodo di ricovero.. quando era in stato di incoscienza… nel delirio pronunciava  formule chimiche..

-Che tipo di paziente era?

Impossibile.. Contestava ogni cosa. Tutti i medici del reparto in cui era ricoverato erano stati suoi allievi all’università. Ognuno di loro aveva verso di lui un misto di soggezione e rispetto. Lui, con la sua mente, ancora sveglia, esaminava ogni proposta di cura nei minimi dettagli e aveva sempre qualcosa da ridire. Talvolta era più possibilista e dinanzi ai medici che lo supplicavano di fare l’una o l’altra cosa rispondeva “vedremo”. E comunque, quando ritornava a casa si curava a modo suo. Era rimasto ribelle fino all’ultimo.
-Lui, specie in quegli ultimi mesi, lo sentiva molto il peso del vivere?

Sì. Era stanchissimo. Il giorno del suo compleanno venne a trovarlo Patrizia Mizzon, fondatrice dell’AIAN di Roma,la mamma di un giovane affetto da linfoma che è guarito grazie al protocollo MDB. Tutti gli dicevano che doveva vivere ancora tanti di quegli anni. Quando tutti furono andati via e ci trovammo solo io e lui, prima di andarmene gli dissi “Professore, io non le faccio gli auguri di buon compleanno. Non posso augurarle cento di questi giorni, perché il suo desiderio è altro”. Lui mi abbracciò commosso e  mi disse “hai capito tutto”.

-Penso anche a tutte le prove che aveva subito in quegli anni. La derisione, le accuse, la diffamazioni.. fino al colpo di grazia, della cosiddetta sperimentazione..

La sperimentazione rappresentò un colpo micidiale. I primi tempi dopo la comunicazione dei suoi “esiti” ci fu un calo radicale di pazienti. Alcuni giorni i pazienti erano pochissimi. Lui era abituato a folle colossali e non si capacitava che adesso i pazienti fossero così pochi. Quando aveva finito con i pochi che ancora venivano.. e vedeva che, in quella giornata, non ce ne erano altri, ci guardava con gli occhi smarriti e con una infinita tristezza ci diceva “Non c’è più nessuno? Sono già finiti?”. Fu un momento amarissimo.. ancora oggi dolorosissimo al solo pensarci..

-Finché morì..

Io non ero là il giorno della sua morte. Morì la notte in cui ero appena rientrata da Modena. Prima di partire gli avevo lasciato una lettera.. una lettera personale.. in busta chiusa che ovviamente non ha mai letto.

-Che pensasti subito dopo la sua morte?

-Che era tutto finito. Che il Metodo era finito col professore. Ma poi il figlio Giuseppe prese in mano le redini, e il Metodo continuò ad esistere. Con Giuseppe il Metodo trovò un nuovo punto di riferimento, intorno al quale ripartire.

-Dalla tua “postazione” di medico proscrittore come sono andate le cose?

All’inizio il colpo si sentì. Si senti ovunque. Poi l’andamento cominciò ad essere altalenante. Negli anni vi è stato un progressivo aumento dei pazienti.

-C’è qualcosa di diverso nell’approccio dei pazienti, oggi, rispetto  a quello che c’era prima?

Le persone adesso chiamano con cognizione di causa. Adesso i pazienti che vogliono sottoporsi ad una terapia non convenzionale si informano, anche tramite internet. Mentre anni fa, la gran parte di essi aveva le idee parecchio confuse, oggi spesso hanno le idee, almeno parzialmente chiare.

-Immagino quante storie di pazienti vivono nella tua memoria. Raccontamene una.
Ti racconto di un giovane… era affetto da sarcoma di Ewing. Venne da me all’età di 22 anni. Per colpa di questo sarcoma aveva avuto sei interventi chirurgici  e tanti cicli di chemio. Ad ogni recidiva gli tagliavano un pezzo di polmone. Quando venne da me era praticamente esausto. Mi disse.. “Voglio morire. Non voglio più entrare in una sala operatoria. E non voglio più curarmi con la chemio”. Iniziammo la terapia.
-Come andò?
Questo ragazzo è guarito completamente. Si è sposato. Ha avuto un bambino, forse due. Fece ricorso in tribunale per avere la cura a carico dell’ASL e lo ha vinto. Anche dopo che era del tutto guarito, continuai a prescrivergli la terapia a pieno regime. Per un motivo molto semplice. L’Asl continuava a pagargli i medicinali. E tutti questi prodotti venivano dati ai pazienti che non potevano permetterseli.
-Hai avuto una vita con momenti assolutamente non facili, e con scelte sicuramente contestate da molti. Ti penti di qualcosa?
Tutti facciamo errori. Ma, rifarei tutto quello che ho fatto, dall’inizio alla fine. Il mio percorso, soprattutto il mio percorso con il Metodo Di Bella, mi ha dato un senso di profonda realizzazione, mi ha fatto sentire davvero un .. medico. Ha generato in me una forte spinta, una fiducia ad andare avanti, sempre per cercare di fare qualcosa di buono verso i pazienti.
-Carmen, una domanda un po' delicata, che ti faccio anche per trasparenza verso i lettori dell'intervista. Da circa una decina di giorni tu non risulti più essere tra i medici Di Bella "accreditati", quelli consigliati dalla Fondazione. Vuoi fare una tua riflessione in proposito?

Guarda, ci credi che io, circa questa esclusione dai medici prescrittori, non ho ricevuto alcuna comunicazione ufficiale? L' ho saputo ufficiosamente. Ma nessuna chiara comunicazione ufficiale mi è giunta. Posso dire che erano sorte delle divergenze, per il fatto che alla terapia del professore avessi aggiunto qualche altro elemento terapeutico  di supporto. Per provare a chiarire e ad avere un dialogo, il mese scorso inviai una lettera a Giuseppe Di Bella... dove cercavo di spiegare il fatto che l'avere in talune occasioni aggiunto alla terapia del professore qualche altro elemento terapeutico di supporto, non significava rinnegare o alterare il metodo. Ma quello di fare il massimo per un paziente. Speravo ci si potesse sentire a voce a quel punto e che ne nascesse un dialogo costruttivo. Invece alla fine mi sono semplicemente trovata -senza una comunicazione ufficiale- fuori dal novero dei medici consigliati dalla Fondazione.

-Cosa vorresti per il futuro?
Fondamentalmente due cose. Ritrovare un mio equilibrio affettivo. E vorrei avere più libertà di movimento nel mio lavoro.

Nessun commento:

Posta un commento