Ricerca degli oncologi della University of California di Los Angeles





























Fonte: Il Corriere della Sera.

Quei vuoti di memoria dopo la chemioterapiaSi pensava che fosse solo suggestione, ma in alcuni casi il problema è reale. Gli esperti lo chiamano chemo brain, cervello chimico.
MILANO – Secondo alcuni non esiste se non come frutto della suggestione dei pazienti. Secondo altri, invece, non solo è reale, ma anche quantificabile. Parliamo di quella serie di piccoli vuoti di memoria e di difficoltà a concentrarsi che si presenta magari anni dopo la fine di una cura anticancro: un effetto collaterale della chemioterapia definito chemo brain (letteralmente, dall’inglese, “cervello chimico”).
Si tratterebbe di una serie di deficit neurologici non gravi che riguardano soprattutto la sfera dell’attenzione e della memoria e che colpirebbero una percentuale minoritaria di malati di varie neoplasie, tra le quali i linfomi e i tumori mammari.
Ora uno studio pubblicato sulla rivista Breast Cancer Research and Treatmentsembra confermarne l’esistenza, anche se i risultati sono stati definiti dagli stessi autori non conclusivi.
Per svelare la vera natura del chemo brain, gli oncologi dell’Università della California di Los Angeles (Stati Uniti) si sono concentrati sulle donne che avevano subito, tra i cinque e i dieci anni addietro, un trattamento per un tumore della mammella, e hanno utilizzato le più moderne tecniche di “imaging” per verificare la loro attività cerebrale, in particolare la PET, o tomografia ad emissione di positroni.
Ventuno ex malate, tutte operate per un cancro al seno (16 delle quali trattate anche con una chemioterapia), sono state sottoposte all’esame, come pure 13 donne simili per età e dati clinici, ma senza una storia di tumore alle spalle; l’esame è stato compiuto durante e dopo l’esecuzione di alcuni test sulla memoria e sulla concentrazione.
Alla fine è risultato che le donne che erano state curate con la chemioterapia presentavano picchi più larghi delle altre nei tracciati del flusso sanguigno del cervello, e che a ciò corrispondevano prestazioni intellettuali inferiori del 13 per cento rispetto a quelle delle altre volontarie. Sempre nelle donne trattate con antiblastici (cioè con la “chemio”), i flussi che descrivono il metabolismo del cervello mostravano evidenti rallentamenti nell’area della corteccia frontale. Una diminuzione dell’otto per cento è stata rilevata anche nel metabolismo (in condizioni di riposo) della regione chiamata dei gangli della base, una zona molto importante, insieme alla corteccia frontale, proprio per la memoria e la concentrazione, e per la connessione tra il pensiero e l’azione.
«In definitiva – concludono gli autori dello studio - i dati raccolti indicano che le ex malate che sono state sottoposte alla chemioterapia hanno una maggiore attività cerebrale, cioè, con ogni probabilità, partono da una condizione più svantaggiata, compiono più lavoro con risultati meno soddisfacenti. Non possiamo essere sicuri che si tratti solo di un danno da chemioterapia, perché entrano in gioco altri fattori come l’età, la menopausa e così via, ma anche se non sono danni neurologici gravi, possono ugualmente dare origine a una grande frustrazione e compromettere la qualità della vita. Se da una parte tutto ciò è preoccupante perché, a seconda degli studi che sono stati condotti, ilchemo brain, nelle sue diverse manifestazioni, colpirebbe una percentuale variabile tra il 25 e l’80 per cento dei pazienti, dall’altra i dati lasciano intravedere la possibilità di prevenire il danno, analizzando preventivamente i tracciati e identificando le donne più a rischio, cioè quelle da destinare a chemioterapie adeguate, o quelle a cui far smettere il trattamento prima che le conseguenze diventino serie».
Dino Amadori, primario del Dipartimento di oncologia dell’Ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì e grande esperto di neoplasie della mammella, da 44 anni tratta donne con un tumore al seno: il suo è dunque un punto di vista privilegiato, perché gli dà la possibilità di osservare le ex malate anche molto tempo dopo la fine delle cure. «Nella mia esperienza - commenta l’oncologo - ilchemo brain non è un problema molto sentito, anche se il fatto che le donne non lo riferiscano non significa necessariamente che non esista. Piuttosto, l’argomento è importante e merita di essere approfondito, e non solo perché non se ne è mai parlato più di tanto. Negli ultimi venti-trent’anni, infatti, soprattutto per quanto riguarda i tumori della mammella, la sopravvivenza si è allungata sempre di più, ed è quindi possibile che questi effetti siano oggi più visibili che in passato: se prima non è stato possibile dimostrarne la presenza e descriverli nel dettaglio, oggi tutto ciò potrebbe essere alla nostra portata. D’altro canto - continua Amadori - nel caso sia confermata l’esistenza di un danno, è importante intensificare gli sforzi per riuscire a prevenirlo, proprio perché le donne vivono più a lungo e, oltre a una migliore sopravvivenza, hanno diritto a una qualità della vita il più possibile integra e soddisfacente. Tutto questo è già una realtà nel caso dei bambini che subiscono una radioterapia all’encefalo, per i quali oggi si cerca di diminuire le dosi al fine di preservare le funzioni superiori, pensando proprio alla loro esistenza futura. Un domani qualcosa di simile potrebbe essere fatto per tutti i pazienti (e il loro numero è in crescita) che hanno una diagnosi di tumore in età giovanile».
E che, aggiungiamo noi, non hanno mai sentito parlare di chemo brain...
Agnese Codignola
16 novembre 2006

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