G. Z. , carcinoma neuroendocrino (1993)


Con la presente desidero raccontarvi la tristissima vicenda della malattia di mio marito G. Z., deceduto nel maggio 2005, dopo sofferenze difficili da descrivere, tanto sono state atroci.

La malattia da cui risultò affetto mio marito, pur avendo avuto inizio nel 1993, ha cominciato ad assumere una certa importanza per lui e per tutta la famiglia, solo alla fine del 2003, quando gli ricomparve un nodulo all’inguine sinistro, analogo ad uno che gli era stato asportato esattamente dieci anni prima.

Dalle carte risulta che fin dal 1993 gli era stato diagnosticato un “carcinoma neuroendocrino”, ma i medici gli dissero che non c’era bisogno di alcuna terapia, ma solo di controlli periodici, che mio marito si recava a fare annualmente.

Nell’agosto del 1995 subì un intervento di “svuotamento inguino-crurale sinistro” e l’esame istologico segnalò un “carcinoma a piccole cellule (Merkel)”. Anche questa volta i medici dell’ospedale, sostenendo che i vari esami clinici avevano dato esiti sostanzialmente negativi (v. ref. 4.10.1995), gli prescrissero solo controlli periodici, che mio marito continuò a fare annualmente e che, nei successivi otto anni, non segnalarono nulla di nuovo.

Nel 2003 si ripresentò un nodulo all’inguine sinistro esattamente come dieci anni prima, per cui mio marito non si preoccupò granché, tanto più che in ospedale, dove andò a farsi controllare, continuavano a dirgli di stare tranquillo perché gli esami non davano esiti preoccupanti. Il 2 dicembre 2003, però, gli fu asportato il nuovo nodulo con intervento di “linfoadenoctomia inguine sin.” e l’esame istologico dette il responso di “metastasi da carcinoma neuroendrocrino” ( v. ref. 13.11.03 e 31.12.03). Da quell’intervento in poi, comparvero via via altri linfonodi; nel novembre 2004 gli fu diagnosticata una “trombosi dell’arto inferiore sin.” e gli fu fatta una TAC, che evidenziò “masse linfonodali retroperitoneali”.

A quel punto i medici gli prescrissero una terapia con iniezioni sottocutanee (per evitare emboli, gli dissero) di Longastatina e compresse di Endoxan, da prendere per cicli di 14 giorni. Soltanto ora so che l’Endoxan è un farmaco chemioterapico, ma questo i medici a mio marito non lo dissero, anzi continuavano a dirgli, anche in presenza mia e di uno dei miei figli, che nella sua malattia “non vi era nulla di cancerogeno”.

Mio marito iniziò (v. ricetta 16.11.2004) a prendere l’Endoxan, una compressa da 50 mg al giorno per i primi quattordici giorni, cominciando subito ad avvertire forti dolori allo stomaco e ai reni. Ma i medici, già dal secondo ciclo, gli prescrissero (v. ricetta 1.12.2004) di passare a due compresse al giorno. I dolori allo stomaco e ai reni continuavano e mio marito, non riuscendo più a mangiare, poiché vomitava qualunque cosa, cominciò a dimagrire velocemente, perdendo dieci chili in poco più di un mese. Faceva fatica a camminare, a dormire e a stare a letto, tanto che doveva passare la notte seduto su una sedia o in poltrona.
Durante uno dei ricoveri in ospedale, uno dei vari medici ci consigliò di “buttare via” l’Endoxan.

A fine dicembre, mio marito comunicò al medico di base (che a noi familiari aveva cominciato a parlare apertamente di metastasi diffuse e della necessità di affrontare la chemioterapia) che, a seguito di visita presso un medico privato, aveva deciso di provare una terapia medica naturale. Il medico di base gli disse che di tale decisione avrebbe informato lui stesso il primario dell’ospedale, ma questi ci telefonò a casa e con insistenza convinse mio marito a farsi ricoverare nel gennaio successivo per cominciare il primo ciclo di chemioterapia.

Mio marito, a causa del peggiorare delle sue condizioni e dei troppi dolori (gli si erano anche gonfiate le gambe e non riusciva ad urinare) l’11 gennaio 2005, prima del previsto, fu ricoverato in Oncologia, ove cominciarono a fargli parecchie “flebo” e siccome non urinava, gli posizionarono anche 2 cateteri nei reni. Mio marito cominciò a gonfiarsi “d’acqua” e ad ingrossarsi in maniera impressionante in tutte le parti del corpo, compresi gli organi genitali: l’acqua sembrava uscirgli perfino dalla pelle.

Ora mi chiedo se tutti questi disastri non li abbia provocati l’Endoxan, che, da una ricerca su internet (v. allegato), presenta, tra gli effetti collaterali più frequenti e meno frequenti, proprio nausea, vomito, perdita dell’appetito, anemia, dolore e ulcerazioni del cavo orale, irritazione della vescica, infezioni, emorragie, ematuria, problemi respiratori e polmonari, ecc.

Il 27 gennaio cominciò il primo ciclo di tre giorni di chemioterapia con “Carboplatino e VP-16 x 3 cicli” (v. allegato lettera 22.03.05).

In bocca e in gola cominciarono a comparirgli delle piaghe bianche: lo dimisero con delle prescrizioni per alleviare i fastidiosi disturbi di tale inconveniente. Dopo 15 giorni si ricoverò di nuovo per altri 3 giorni di chemioterapia, ma dopo la dimissione, una volta a casa, dai cateteri dei reni, e successivamente anche dai genitali, cominciò ad uscire sangue.

Nuovo ricovero, con applicazione di catetere anche ai genitali e prescrizione di coagulanti, che dopo dieci giorni di ulteriori malesseri un medico, diverso dal primo, gli sospese. Devo lamentare un via-vai di medici sempre diversi attorno a mio marito, senza apparente comunicazione tra loro, anzi, mostrando disinteresse l’uno verso le conclusioni dell’altro, cosa che ci lasciava in uno stato di incertezza e pessimismo.

Tra il secondo e terzo ciclo di chemioterapia le difese di mio marito si erano praticamente azzerate (v. analisi 8.02.05), tanto che fu messo per una settimana in isolamento e curato allo scopo di riattivare e ripristinare le difese immunitarie, per poter affrontare il terzo ciclo di chemioterapia. Ma dopo il terzo ciclo le sue condizioni continuarono, se ancora possibile, a peggiorare, così che i medici si decisero ad ammettere che mio marito non tollerava la chemioterapia e gliela sospesero definitivamente (per “ematuria, pancitopenia e scadimento delle condizioni generali”).

Da quel momento rifiutarono altri eventuali suoi ricoveri, perché “non c’era null’altro da fare” e consigliarono la sola morfina.

A casa mio marito continuò a peggiorare: vomitava spesso e dai cateteri dei reni e dei genitali continuava ad uscire sangue, che si raccoglieva in una borsa.

Poiché in oncologia ci rifiutavano altri ricoveri, lo ricoverammo nella struttura riservata ai pensionanti, dove l’assistenza, però, era assai scadente (infermiere svogliate e incompetenti, che non trovavano mai una vena, bucando mio marito un numero indecente di volte).

Nessun medico si faceva vivo se non dopo ore. Mio marito, che spesso urlava di dolore, un giorno dovette attendere per 3 ore e mezzo l’arrivo di un medico, nonostante le nostre ripetute insistenze con le infermiere (una delle quali un giorno ebbe incredibilmente a sbottare “caro Z…, quanto ci costi"!). Finalmente si accorsero che i lancinanti dolori di mio marito erano dovuti a coaguli di sangue, per cui, da quel momento, si decisero a intervenire ogni mezz’ora.

Non mi rassegno al fatto che mio marito, dopo essere stato ridotto in condizioni fisiche devastanti, sia stato fatto soffrire in quel modo, come se non fosse più persona, con incredibile indifferenza verso le sue sofferenze fisiche e nessuna considerazione di quelle psicologiche.

Mio marito amava la vita e negli ultimi dieci anni, da quando era in pensione, si era dedicato ad approfondire tutti quegli interessi, ai quali non aveva potuto dedicarsi da giovane e della cui conoscenza sembrava assetato: vedersi morire giorno dopo giorno in quelle condizioni era per lui e per la sua mente, ricca di progetti sospesi, una condanna insopportabile, da aggiungere alle già insopportabili sofferenze fisiche.

L’unica cosa che mi consola è che dal 1993, quando si presentarono i primi sintomi della malattia, al 2003, quando gli fu tolto per la seconda volta il linfonodo inguinale, con tutto ciò che ne è conseguito, mio marito, senza sottoporsi ad alcun tipo di cura, abbia potuto vivere dieci anni tranquillo e sereno, lavorando, viaggiando, dedicandosi ai suoi hobby preferiti e allo studio, circondato dalla stima e dall’affetto di un gran numero di amici.

A fine ottobre 2004 appariva in condizioni fisiche ancora normali, a fine dicembre era già quasi irriconoscibile, a fine maggio 2005 non c’era già più.

Lascio a chi leggerà questo mio racconto, che vi autorizzo a rendere pubblico, ogni considerazione.

Grazie per la vostra attenzione e cordiali saluti.

N. N. Z.

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