UNA PERSONA DI SOSTEGNO



Questa lettera è stata pubblicata nel Journal of Transpersonal Psychology e mi ha colpita molto: credo che chiunque debba sapere come diventare persona di sostegno, e alla fine capirà che non serve solo ai malati oncologici.





Tratto da:
Wilber, K. , capitolo ventesimo: Una persona di sostegno da Wilber, K. , Grazia e grinta. La malattia mortale come situazione di crescita, Cittadella Editrice, Assisi, 2002, pg 426-435.




Boulder, 27 luglio 1988

Cari amici,

per quanto riguarda le persone di sostegno, un problema particolarmente insidioso comincia a prendere piede dopo due o tre mesi di accudimento. In fondo, è relativamente facile affrontare gli aspetti esteriori, fisici, ovvi dell'accudimento. Ristrutturi i tuoi orari di lavoro, ti abitui a cucinare, a lavare, a pulire la casa o a qualsiasi altra cosa che devi fare fisicamente in quanto persona di sostegno per prenderti cura della persona amata: la accompagni dal medico, la aiuti con le medicine, e così via. Tutto questo può essere abbastanza difficile ma le soluzioni sono piuttosto ovvie: o compi tu stesso il lavoro in più o disponi le cose in modo che lo faccia qualcun altro.
Ma la parte più difficile,  e più insidiosa, per la persona di sostegno è il tumulto interiore che comincia ad accumularsi a livello emotivo e psicologico. Questo tumulto ha due aspetti, uno privato e l'altro pubblico. Sotto l'aspetto privato, cominci a renderti conto che, per quanti problemi personali tu possa avere, essi scompaiono rispetto a quelli della persona cara che ha il cancro o un'altra malattia che può essere fatale. Perciò per settimane e mesi smetti semplicemente di pensare ai tuoi problemi, li escludi. Non vuoi turbare la persona cara, non vuoi renderle le cose peggiori, e, inoltre, continui a ripeterti: "Bè, se non altro, io non ho il cancro; i miei problemi non possono essere altrettanto grandi".
Dopo qualche mese di questa situazione (sono certo che varia da persona a persona), la persona di sostegno comincia a capire: il fatto che i tuoi problemi impallidiscano, per esempio, in confronto al cancro, non fa sì che essi scompaiano. Anzi, di fatto, peggiorano, perché adesso hai due problemi: il problema originale più il fatto che non puoi esprimerlo e, quindi, trovare una soluzione. I problemi si ingigantiscono: premi il coperchio più a fondo ed essi rimbalzano su con rinnovata forza. Cominci a sentirti un po’ strano. Se sei un introverso, cominciano a venirti dei piccoli tic nervosi, ti manca il fiato, si insinua l’ansia, ridi troppo forte, bevi una birra in più. Se sei un estroverso, cominci ad esplodere nei momenti più inappropriati, fai scenate, sbatti la porta uscendo dalla stanza, lanci oggetti, bevi una birra in più. Se sei introverso, ci sono momenti in cui vuoi morire; se sei un estroverso, in quei momenti vorresti uccidere lei. In ogni caso, la morte è sospesa nell’aria e inesorabilmente s’insinuano collera, risentimento, amarezza, insieme al terribile senso di colpa perché provi questi neri sentimenti.
Naturalmente, sono sentimenti del tutto naturali e normali, date le circostanze. In effetti, mi preoccuperebbe moltissimo una persona di sostegno che occasionalmente non li provasse. Il modo migliore per gestirli è di parlarne; non potrò mai sottolinearlo abbastanza: l’unica soluzione è parlarne.
Con questa decisione, la persona di sostegno incorre nella seconda difficoltà emozionale-psicologica: l’aspetto pubblico. Una volta deciso che devi parlare, il problema è: a chi? Probabilmente la persona cara non è la persona più adatta con cui discutere alcuni dei tuoi problemi, per il semplice motivo che spesso è essa stessa il tuo problema, poiché rappresenta un grosso onere per te e tuttavia non vuoi farla sentire in colpa per questo, non vuoi scaricarti su di lei, per quanto arrabbiato tu possa essere con lei perché “si è ammalata”.
Senza dubbio il luogo migliore per parlare di tutto questo è in un gruppo di sostegno, composto da persone che si trovano in circostanze simili, vale a dire un gruppo di sostegno per persone di sostegno. Può anche esser molto prezioso un terapeuta personale, oltre che la terapia di coppia. Dedicherò tuttavia soltanto poche parole a queste forme di “sostegno professionale”; infatti la persona media, io compreso, tende a non avvalersi di queste figure finché il gioco non è andato troppo avanti, e a quel punto i danni sono già stati fatti e c’è stata molta sofferenza inutile. La persona media fa la cosa più normale e comprensibile: parla con i familiari, con gli amici, con le altre persone coinvolte; ed è a questo punto che va a sbattere contro il problema pubblico.
Come dice Vicky Wells, il problema pubblico consiste in questo: “Nessuno è interessato ai problemi cronici”. Intende dire che vengo da te con un problema, voglio parlarne, voglio consigli, consolazione. Parliamo, tu sei gentile, comprensivo, cerchi di essere utile. Io mi sento meglio, tu ti senti utile.  Però il giorno successivo la mia persona cara ha ancora il cancro; essenzialmente, la situazione non è affatto migliorata, anzi potrebbe essere peggiore di prima. Non mi sento affatto bene. Ti incontro per caso, mi chiedi come sto. Dico la verità, dico che mi sento orrendamente, e parliamo. Di nuovo tu sei comprensivo, gentile e utile, e io mi sento meglio… fino al giorno successivo quando la persona cara ha ancora il cancro e tutto è uguale a prima. Giorno dopo giorno, niente può essere fatto rispetto alla situazione in sé (i medici stanno facendo tutto il possibile e la persona rischia ancora di morire). Così, un giorno dopo l’altro, ti senti a pezzi e la situazione resta immutata. Prima o poi scopri che, se continui a parlare, quasi tutti coloro che non affrontano ogni giorno personalmente questo problema cominciano ad annoiarsi o a seccarsi. A parte gli amici più stretti,  tutti cominciano ad evitarti, perché il cancro è sempre sospeso sull’orizzonte come una nuvola nera, pronta a far cadere la pioggia su qualsiasi parata festiva. Diventi una sorta di lamento cronico che nessuno vuole sentire, perché la gente si stanca di ascoltare lo stesso vecchio problema. “Nessuno è interessato ai problemi cronici”…
Alla fine le persone di sostegno scoprono che i loro problemi privati si stanno moltiplicando e che la soluzione pubblica non funziona poi così bene. Cominciano a sentirsi completamente soli e isolati. A questo punto possono accadere varie cose: se ne vanno, crollano, cominciano a fare abuso di farmaci o droghe, cercano aiuto professionale…
Come ho detto, il luogo migliore in assoluto per esprimere le proprie difficoltà è un gruppo di sostegno per coloro che assistono un malato. Quando partecipi a questi gruppi scopri che l’attività principale è sostanzialmente quella di lagnarsi della persona cara, tipo: “Chi pensa di essere per comandarmi così?”; “Che cosa le fa pensare di essere tanto speciale, solo perché è malata; ho già problemi miei, sapete”; “Sento di  aver perso del tutto il controllo sulla mia vita”; “Spero che il bastardo si sbrighi a morire”. Cose di questo genere, cose che le persone beneducate non dicono in pubblico e che certamente non dicono alla persona cara.
Il fatto è che sotto questi sentimenti negativi, sotto la collera e il risentimento, c’è sempre una grande quantità di amore, altrimenti la persona di sostegno avrebbe mollato tutto da tempo. Ma questo amore non può venire liberamente in superficie finché collera, risentimento e amarezza ostruiscono la strada- Gibran dice: “L’odio è amore affamato”. Nei gruppi di sostegno c’è molto odio espresso, ma soltanto perché sotto di esso c’è molto amore, amore affamato. Altrimenti non odieresti la persona, non t’importerebbe affatto. Nella mia esperienza, per la maggior parte delle persone di sostegno (incluso me stesso), il punto non è che non ricevano sufficiente amore, ma che hanno difficoltà a ricordare come dare amore, come amare nelle difficili circostanze prodotte dall’essere una persona di sostegno. Dato che, nella mia esperienza, è risanante soprattutto dare amore, le persone di sostegno hanno realmente bisogno di eliminare ciò che ostacola la presenza dell’amore: la collera, il risentimento, l’odio, l’amarezza, perfino l’invidia e la gelosia (invidio la persona cara perché ha qualcuno che si prender costantemente cura di lei, cioè ha me).
Per questi problemi, un gruppo di sostegno ha un valore incommensurabile. Se non ha effetto, consiglio di ricorrere alla psicoterapia individuale, magari associandola al gruppo di sostegno; questo è essenziale per la persona di sostegno, ma è utile anche per il malato. Infatti impari ben presto che ci sono alcune cose che non vanno discusse con la persona cara; viceversa, ci sono altre cose che lei non deve discutere con te. Ritengo che le persone della mia generazione credano per lo più che  “l’onestà sia la politica migliore” e che i coniugi debbano parlare di tutto ciò che li turba. Ma questo sistema non funziona. L’apertura è importante ed utile, ma soltanto in una certa misura; ad un certo punto, l’apertura può diventare un0arma, un modo malevolo per ferire qualcuno: “Ma non ho detto che la verità…!”. Ho provato molta collera e molto risentimento per la situazione in cui ci ha gettati il cancro di Treya, ma scaricare tutto questo costantemente su Treya non apporta alcun beneficio per me. Lei odia la situazione quanto me e, in ogni caso, non è colpa sua. Sono ancora arrabbiato e risentito, ma non si può “condividere” questo con la persona cara, non si può scaricarlo su di lei. Paghi un terapeuta e scarichi l’inferno su di lui.
Questo presenta l’ulteriore vantaggio di dare a entrambi la possibilità di stare insieme senza risentimento e collera inespressi da parte della persona di sostegno e senza colpa e vergogna da parte della persona cara. Hai già scaricato buona parte del peso nella seduta di gruppo o con il terapeuta. Ora puoi anche imparare la tenera arte di dire bugie compassionevoli, anziché esprimere narcisisticamente a gran voce quello che “senti veramente”, senza curarti di quanto possa ferire l’altro. Non grosse bugie ma solo piccole menzogne diplomatiche, che non occultino difficoltà veramente importanti ma che nello stesso tempo non smuovano un vespaio di questioni irrisolte soltanto per soddisfare una cosiddetta onestà. In certi giorni ti senti particolarmente stanco di essere una persona di sostegno e la persona cara ti chiede: “Come va oggi?”. “Mi sento uno schifo, la mia vita non mi appartiene più, perché non ti butti dal ponte?”: questa è una risposta sbagliata; vera ma completamente negativa. Provate invece con questa: “Oggi sono stanco, tesoro, ma me la cavo”. Poi cercate il gruppo di sostegno o il terapeuta e prendetevela con loro. Non c’è il benché minimo beneficio a scaricarsi con la persona cara, per ”onesto” che possa essere.
Vedete, una delle cose più strane che ho imparato sull’essere una persona di sostegno abbastanza valida, è che il tuo compito principale è quello di essere una spugna emozionale. La maggior parte della gente pensa che il tuo compiuto sia di dare consigli, aiutare la persona cara a risolvere i problemi, essere utile, servizievole, preparare la cena, accompagnarla in macchina e così via. Ma tutti questi compiti sono secondari rispetto al ruolo principale della persona di sostegno, che è quello di spugna emozionale. La persona cara che affronta una malattia forse letale può provare una quantità di emozioni estremamente forti, talvolta può essere totalmente sopraffatta da emozioni come paura, terrore, collera, isteria e dolore. Il tuo compito è di abbracciarla, stare con lei, assorbendo il maggior numero possibile di tali emozioni. Non devi parlare, non devi dire alcunché (niente che tu possa dire sarebbe realmente utile), non devi dare alcun consiglio (comunque non servirebbe a molto), non devi fare niente. Devi soltanto esserci, respirare il suo dolore, la sua paura, la sua sofferenza. Diventi una spugna.
Quando Treya si ammalò, pensai di poter facilitare la situazione assumendo la gestione delle cose, dicendo le cose giuste, dando il mio aiuto nella scelta delle terapie, e così via. Tutte cose utili, ma che non centravano il bersaglio. Quando riceveva notizie particolarmente brutte, per esempio una nuova metastasi, cominciava a piangere ed io immediatamente dicevo cose come: “Senti, ancora non è una cosa certa, sono necessari altri test; in ogni caso, non è detto che questo modificherà le terapie”, eccetera. Non era questo che serviva a Treya; aveva semplicemente bisogno che piangessi con lei, ed imparai a farlo, che provassi i suoi stessi sentimenti in modo da aiutare a dissolverli, o ad assorbirli. Credo che ciò avvenga a livello corporeo; non è necessario parlare, ma puoi parlare se vuoi.
In ogni caso, quando una persona amata riceve notizie terribili, la propria reazione iniziale è di farla sentire meglio: questa in generale è la reazione sbagliata. La prima cosa è l’empatia. Cominciai a capire che il punto cruciale è semplicemente essere presenti per la persona, di non temere la sua paura, il suo dolore o la sua collera; consentire che venga fuori quello che deve venire fuori e, soprattutto, di non tentare di liberarsi dei sentimenti dolorosi cercando di aiutare la persona, cercando di farla “sentire meglio” o di “farla parlare” per dissipare le sue preoccupazioni. Nel mio caso, questo atteggiamento di “aiuto” veniva fuori soltanto quando non volevo affrontare i sentimenti di Treya o i miei; non volevo entrare in contatto con loro in maniera semplice e diretta, ma volevo che scomparissero. Non volevo essere una spugna, volevo essere “uno che fa qualcosa di concreto” e migli9rare la situazione- Non volevo riconoscere la mia impotenza nei confronti dell’ignoto. Avevo tanta paura quanto Treya.
Vedete, l’essere soltanto una spugna tende a farti sentire inerme e inutile, perché non fai qualcosa ma stai semplicemente lì, senza fare niente (o così sembra). E’ questo che tante persone trovano difficile da imparare; per me è stato così. Mi ci è voluto quasi un anno per smettere di cercare di sistemare le cose o di migliorarle, limitandomi a stare con Treya anche quando provo sofferenza. Penso che è per questo che “nessuno è interessato ai problemi cronici”, perché non puoi fare niente nelle situazioni croniche, se non essere presente. Perciò quando la gente pensa di dover fare qualcosa per aiutarti, e scopre che fare non serve a niente, si sente sconcertata, persa. Che cosa posso fare? Niente, soltanto essere lì…
Quando qualcuno mi chiede che cosa faccio e non mi va di chiacchierare, di solito rispondo: “Sono una moglie giapponese”, il che produce una grande confusione nell’ascoltatore. Il punto è che, come persona di sostegno, si presume che tu debba stare zitto e fare quello che vuole il tuo partner: si presume che tu debba essere una brava “mogliettina”.
Questo è particolarmente duro per gli uomini; per me lo fu. Mi occorsero circa due anni, credo, per non prendermela più per il fatto che in qualsiasi discussione o decisione, Treya aveva la carta vincente: “Ma io ho il cancro”. In altre parole, Treya riusciva quasi sempre ad averla vinta e io non potevo fare altro che assecondarla, come una brava mogliettina.
Tutto questo non m'importa più tanto. Innanzitutto non "assecondo" automaticamente tutte le decisioni di Treya, in particolare quando penso che derivino da valutazioni sbagliate. Prima tendevo a concordare con lei perché sembrava avere un bisogno quasi disperato che sostenessi le sue decisioni, anche se questo significava mentire sui miei reali sentimenti. Adesso gestiamo le cose diversamente e se Treya deve prendere una decisione importante, ad esempio se tentare o no una nuova terapia, esprimo la mia opinione con decisione, anche se non concorda con la sua, fino al momento in cui decide che cosa fare. Da quel momento in poi, concordo con lei, la sostengo, le do il mio sostegno per la scelta fatta quanto meglio posso. Il mio compito non è più di pungolarla, o di gettare dubbi sulla sua scelta. Ha già abbastanza problemi e non è il caso di dubitare costantemente delle sue decisioni…
In secondo luogo, non mi importa più di essere la buona mogliettina per quanto riguarda le faccende quotidiane. Cucino, pulisco, lavo i piatti, faccio il bucato, vado al supermercato. Treya scrive lettere affascinanti, fa clisteri di caffè, inghiotte manciate di pillole ogni 2 ore, perciò qualcuno deve svolgere tutti quei compiti noiosi: giusto?
Gli esistenzialisti hanno ragione quando affermano che devi sostenere le scelte che hai fatto nella sfera delle tue scelte o azioni personali. Cioè, devi puntellare le scelte che hai compiuto e che hanno contribuito a modellare il tuo destino; essi dicono: "Noi siamo le nostre scelte". Il mancato sostegno delle proprie scelte è chiamato "malafede" e si ritiene che conduca all'"essere non autentico".
Per quanto mi riguarda, compresi tutto questo in maniera molto semplice: avrei potuto andarmene, in qualsiasi momento di questo difficile processo. Nessuno mi incatenava alle corsie di ospedale, nessuno avrebbe minacciato la mia vita se me ne fossi andato, nessuno mi aveva costretto. Qualche profonda parte di me aveva compiuto la scelta fondamentale di restare con questa donna in qualsiasi situazione, qualunque cosa fosse successa, per sempre; di accompagnarla per l'intero corso quale che ne fosse l'esito. Ma dimenticai questa scelta in qualche momento del secondo anno della prova, anche se era, ovviamente, una scelta che stavo tuttora compiendo, altrimenti me ne sarei andato. Stavo dimostrando malafede, non ero autentico, non ero reale. Nella mia cattiva fede, avevo dimenticato la scelta compiuta, perciò quasi immediatamente piombai in un atteggiamento di biasimo e, di conseguenza, di autocommiserazione. Ma in un modo o nell'altro tutto questo mi divenne molto chiaro.
Non è sempre facile per me sostenere questa scelta, o le mie scelte in generale. Non fa migliorare automaticamente la situazione. E' come andare volontari in battaglia ed essere colpiti da una pallottola. Forse avrei scelto liberamente di combattere, ma non di farmi sparare. Mi sento un po’ ferito e non mi piace; tuttavia mia sono presentato volontario per questo compito – l'ho scelto io – e mi presenterei nuovamente volontario, sapendo perfettamente che cosa comporta.
Perciò ogni giorno riconfermo la mia scelta. Ogni giorno scelgo di nuovo. Questo impedisce che il biasimo si accumuli e rallenta l'accumulazione dell'autocommiserazione e della colpa. E' una cosa semplice da dire, ma nella vita reale applicare le decisioni più semplici è solitamente molto difficile.
Oltre ad essere tornato lentamente a scrivere, ho anche ripreso la meditazione, il cui punto essenziale è imparare come morire (rispetto al senso del sé separato, o io). Il fatto che Treya stia affrontando una malattia potenzialmente letale è un incentivo straordinario alla consapevolezza meditativa. I saggi dicono che se mantieni questa consapevolezza-senza-scelta, questo semplice essere testimone, momento per momento, la morte diventa un momento come qualsiasi altro ed entri in relazione con essa in modo semplice e diretto. Non rifuggi dalla morte né ti aggrappi alla vita, poiché entrambe fondamentalmente non sono che semplici esperienze che passano.
Anche il concetto buddista del "vuoto" mi ha aiutato molto. Il vuoto (shunyata) non significa nulla o assenza; significa non ostruito, non impedito, spontaneo ed è anche grossolanamente sinonimo di impermanenza o fuggevolezza (anicca). I buddisti dicono che la realtà è vuota, che non c'è alcunché di permanente o di assolutamente durevole a cui tu possa aggrapparti per ottenere sostegno e sicurezza. Il Sutra del Diamante afferma: "La vita è come una bolla, un sogno, un riflesso, un miraggio". Il punto è: non cercare di afferrare il miraggio ma, al contrario, di "lasciare la presa", dato che in ogni caso non c'è niente che si possa afferrare. Il cancro di Treya è un costante richiamo che la morte è un grande lasciar andare ma non è necessario che tu attenda la morte fisica per lasciar andare profondamente la tua presa, la tua stretta; puoi farlo in qualsiasi momento.
Infine, per tornare al punto, i mistici sostengono che se si vive senza scelte, cioè affidandosi a una consapevolezza senza-scelta, allora l'azione in questo mondo è priva di ego, senza egocentrismo. Per morire rispetto al senso del sé separato (o per trascenderlo), devi morire rispetto alle azioni egocentriche ed egoistiche. In altre parole, devi praticare quello che i mistici chiamano "servizio altruistico". Devi servire agli altri, senza pensare a te stesso o sperare di ottenere lodi: ti limiti ad amare e servire; come diceva Madre Teresa "Ama fino a quando fa male".
In altre parole, diventi una buona moglie.
In altre parole, eccomi qui, a cucinare e a lavare i piatti.
Non fraintendetemi, sono ancora ben lontano dall'essere come Madre Teresa, tuttavia considero sempre più la mia attività di persona di sostegno come parte del servizio altruistico, parte quindi della mia crescita spirituale, una sorta di meditazione attraverso l'azione, un tipo di com-passione. Non intendo neppure dire che io abbia perfezionato quest'arte; tuttora mi lamento e mugugno, mi arrabbio, do la colpa alle circostanze; tuttora io e Treya un po’ scherziamo (un po’ no) sul prenderci per mano e saltare dal ponte, mettendo fine a tutto questo scherzo.
E poi, tutto sommato, preferirei scrivere.
Adesso, come premio per aver letto tutta questa lunga lettera, e per tutte voi brave mogli ovunque siate, cedo la mia famosa ricetta di
chili vegetariano:
Ingredienti:
2-3 scatole di fagioli borlotti (scolati)
2 gambi di sedano tritati
2 cipolle tritate
2 peperoni verdi tritati
2-3 cucchiai di olio d'oliva
1 scatola di pomodori pelati
3-4 spicchi d'aglio
3-4 cucchiai di chili in polvere
1-2 cucchiai di cumino
2-3 cucchiai di prezzemolo fresco
2-3 cucchiai di origano
1 lattina di birra
1 tazza di anacardi
½ tazza di uvetta (facoltativa)
Riscaldare l'olio su una padella grande; saltare le cipolle fino a quando sono trasparenti, poi unire il sedano, il peperone verde e l'aglio; cuocere per circa 5 minuti. Aggiungere i pomodori (con il liquido; schiacciare i pomodori riducendoli a pezzetti) e i fagioli; ridurre il fuoco e lasciare sobbollire. Aggiungere la polvere di chili, il cumino, il prezzemolo, l'origano, la birra, gli anacardi e l'uvetta (facoltativa). Fai cuocere a fiamma bassa per quanto volete. Guarnire con prezzemolo fresco o formaggio cheddar grattuggiato.
Non ricordo se la birra facesse parte della ricetta originale o se una volta ho lasciato cadere la mia birra nella padella mentre cucinavo; comunque sia, la birra è essenziale. Le dosi in cucchiai sono intese in cucchiai da tavola, non cucchiaini; infatti il segreto di questo chili è la grande quantità di erbe
A votre santé. Gustatelo in buona salute.
Con affetto,
Ken


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