Questa lettera è stata pubblicata nel Journal
of Transpersonal Psychology e
mi ha colpita molto: credo che chiunque debba sapere come diventare persona di
sostegno, e alla fine capirà che non serve solo ai malati oncologici.
Tratto da:
Wilber, K. , capitolo ventesimo: Una persona di sostegno da Wilber, K. , Grazia e grinta. La malattia mortale come situazione di crescita, Cittadella Editrice, Assisi, 2002, pg 426-435.
Boulder, 27
luglio 1988
Cari amici,
per quanto riguarda le persone di sostegno, un
problema particolarmente insidioso comincia a prendere piede dopo due o tre
mesi di accudimento. In fondo, è relativamente facile affrontare gli aspetti
esteriori, fisici, ovvi dell'accudimento. Ristrutturi i tuoi orari di lavoro,
ti abitui a cucinare, a lavare, a pulire la casa o a qualsiasi altra cosa che
devi fare fisicamente in quanto persona di sostegno per prenderti cura della
persona amata: la accompagni dal medico, la aiuti con le medicine, e così via.
Tutto questo può essere abbastanza difficile ma le soluzioni sono piuttosto
ovvie: o compi tu stesso il lavoro in più o disponi le cose in modo che lo
faccia qualcun altro.
Ma la parte più difficile, e più insidiosa, per la persona di
sostegno è il tumulto interiore che comincia ad accumularsi a livello emotivo e
psicologico. Questo tumulto ha due aspetti, uno privato e l'altro pubblico.
Sotto l'aspetto privato, cominci a renderti conto che, per quanti problemi
personali tu possa avere, essi scompaiono rispetto a quelli della persona cara
che ha il cancro o un'altra malattia che può essere fatale. Perciò per
settimane e mesi smetti semplicemente di pensare ai tuoi problemi, li escludi.
Non vuoi turbare la persona cara, non vuoi renderle le cose peggiori, e,
inoltre, continui a ripeterti: "Bè, se non altro, io non ho il cancro; i
miei problemi non possono essere altrettanto grandi".
Dopo qualche mese di questa situazione (sono
certo che varia da persona a persona), la persona di sostegno comincia a
capire: il fatto che i tuoi problemi impallidiscano, per esempio, in confronto
al cancro, non fa sì che essi scompaiano. Anzi, di fatto, peggiorano, perché
adesso hai due problemi: il
problema originale più il fatto che non puoi esprimerlo e, quindi, trovare una
soluzione. I problemi si ingigantiscono: premi il coperchio più a fondo ed essi
rimbalzano su con rinnovata forza. Cominci a sentirti un po’ strano. Se sei un
introverso, cominciano a venirti dei piccoli tic nervosi, ti manca il fiato, si
insinua l’ansia, ridi troppo forte, bevi una birra in più. Se sei un
estroverso, cominci ad esplodere nei momenti più inappropriati, fai scenate,
sbatti la porta uscendo dalla stanza, lanci oggetti, bevi una birra in più. Se
sei introverso, ci sono momenti in cui vuoi morire; se sei un estroverso, in
quei momenti vorresti uccidere lei.
In ogni caso, la morte è sospesa nell’aria e inesorabilmente s’insinuano
collera, risentimento, amarezza, insieme al terribile senso di colpa perché
provi questi neri sentimenti.
Naturalmente, sono sentimenti del tutto
naturali e normali, date le circostanze. In effetti, mi preoccuperebbe
moltissimo una persona di sostegno che occasionalmente non li provasse. Il modo
migliore per gestirli è di parlarne; non potrò mai sottolinearlo abbastanza:
l’unica soluzione è parlarne.
Con questa decisione, la persona di sostegno
incorre nella seconda difficoltà emozionale-psicologica: l’aspetto pubblico.
Una volta deciso che devi parlare, il problema è: a chi? Probabilmente la
persona cara non è la persona più adatta con cui discutere alcuni dei tuoi
problemi, per il semplice motivo che spesso è essa stessa il tuo problema,
poiché rappresenta un grosso onere per te e tuttavia non vuoi farla sentire in
colpa per questo, non vuoi scaricarti su di lei, per quanto arrabbiato tu possa
essere con lei perché “si è ammalata”.
Senza dubbio il luogo migliore per parlare di
tutto questo è in un gruppo di sostegno, composto da persone che si trovano in
circostanze simili, vale a dire un gruppo di sostegno per persone di sostegno.
Può anche esser molto prezioso un terapeuta personale, oltre che la terapia di
coppia. Dedicherò tuttavia soltanto poche parole a queste forme di “sostegno
professionale”; infatti la persona media, io compreso, tende a non avvalersi di
queste figure finché il gioco non è andato troppo avanti, e a quel punto i
danni sono già stati fatti e c’è stata molta sofferenza inutile. La persona
media fa la cosa più normale e comprensibile: parla con i familiari, con gli
amici, con le altre persone coinvolte; ed è a questo punto che va a sbattere
contro il problema pubblico.
Come dice Vicky Wells, il problema pubblico
consiste in questo: “Nessuno è interessato ai problemi cronici”. Intende dire
che vengo da te con un problema, voglio parlarne, voglio consigli,
consolazione. Parliamo, tu sei gentile, comprensivo, cerchi di essere utile. Io
mi sento meglio, tu ti senti utile.
Però il giorno successivo la mia persona cara ha ancora il cancro;
essenzialmente, la situazione non è affatto migliorata, anzi potrebbe essere
peggiore di prima. Non mi sento affatto bene. Ti incontro per caso, mi chiedi
come sto. Dico la verità, dico che mi sento orrendamente, e parliamo. Di nuovo
tu sei comprensivo, gentile e utile, e io mi sento meglio… fino al giorno
successivo quando la persona cara ha ancora il cancro e tutto è uguale a prima.
Giorno dopo giorno, niente può essere fatto rispetto alla situazione in sé (i
medici stanno facendo tutto il possibile e la persona rischia ancora di
morire). Così, un giorno dopo l’altro, ti senti a pezzi e la situazione resta
immutata. Prima o poi scopri che, se continui a parlare, quasi tutti coloro che
non affrontano ogni giorno personalmente questo problema cominciano ad
annoiarsi o a seccarsi. A parte gli amici più stretti, tutti cominciano ad evitarti, perché il
cancro è sempre sospeso
sull’orizzonte come una nuvola nera, pronta a far cadere la pioggia su
qualsiasi parata festiva. Diventi una sorta di lamento cronico che nessuno
vuole sentire, perché la gente si stanca di ascoltare lo stesso vecchio
problema. “Nessuno è interessato ai problemi cronici”…
Alla fine le persone di sostegno scoprono che i
loro problemi privati si stanno moltiplicando e che la soluzione pubblica non
funziona poi così bene. Cominciano a sentirsi completamente soli e isolati. A
questo punto possono accadere varie cose: se ne vanno, crollano, cominciano a
fare abuso di farmaci o droghe, cercano aiuto professionale…
Come ho detto, il luogo migliore in assoluto
per esprimere le proprie difficoltà è un gruppo di sostegno per coloro che
assistono un malato. Quando partecipi a questi gruppi scopri che l’attività
principale è sostanzialmente quella di lagnarsi della persona cara, tipo: “Chi
pensa di essere per comandarmi così?”; “Che cosa le fa pensare di essere tanto
speciale, solo perché è malata; ho già problemi miei, sapete”; “Sento di aver perso del tutto il controllo sulla
mia vita”; “Spero che il bastardo si sbrighi a morire”. Cose di questo genere,
cose che le persone beneducate non dicono in pubblico e che certamente non
dicono alla persona cara.
Il fatto è che sotto questi sentimenti
negativi, sotto la collera e il risentimento, c’è sempre una grande quantità di
amore, altrimenti la persona di sostegno avrebbe mollato tutto da tempo. Ma
questo amore non può venire liberamente in superficie finché collera,
risentimento e amarezza ostruiscono la strada- Gibran dice: “L’odio è amore
affamato”. Nei gruppi di sostegno c’è molto odio espresso, ma soltanto perché
sotto di esso c’è molto amore, amore affamato. Altrimenti non odieresti la
persona, non t’importerebbe affatto. Nella mia esperienza, per la maggior parte
delle persone di sostegno (incluso me stesso), il punto non è che non ricevano sufficiente amore, ma che hanno difficoltà a
ricordare come dare amore,
come amare nelle difficili circostanze prodotte dall’essere una persona di
sostegno. Dato che, nella mia esperienza, è risanante soprattutto dare amore,
le persone di sostegno hanno realmente bisogno di eliminare ciò che ostacola la
presenza dell’amore: la collera, il risentimento, l’odio, l’amarezza, perfino
l’invidia e la gelosia (invidio la persona cara perché ha qualcuno che si
prender costantemente cura di lei, cioè ha me).
Per questi problemi, un gruppo di sostegno ha
un valore incommensurabile. Se non ha effetto, consiglio di ricorrere alla
psicoterapia individuale, magari associandola al gruppo di sostegno; questo è
essenziale per la persona di sostegno, ma è utile anche per il malato. Infatti
impari ben presto che ci sono alcune cose che non vanno discusse con la persona
cara; viceversa, ci sono altre cose che lei non deve discutere con te. Ritengo
che le persone della mia generazione credano per lo più che “l’onestà sia la politica migliore” e
che i coniugi debbano parlare di tutto ciò che li turba. Ma questo sistema non
funziona. L’apertura è importante ed utile, ma soltanto in una certa misura; ad
un certo punto, l’apertura può diventare un0arma, un modo malevolo per ferire
qualcuno: “Ma non ho detto che la verità…!”. Ho provato molta collera e molto
risentimento per la situazione in cui ci ha gettati il cancro di Treya, ma
scaricare tutto questo costantemente su Treya non apporta alcun beneficio per
me. Lei odia la situazione quanto me e, in ogni caso, non è colpa sua. Sono
ancora arrabbiato e risentito, ma non si può “condividere” questo con la
persona cara, non si può scaricarlo su di lei. Paghi un terapeuta e scarichi
l’inferno su di lui.
Questo presenta l’ulteriore vantaggio di dare a
entrambi la possibilità di stare insieme senza risentimento e collera
inespressi da parte della persona di sostegno e senza colpa e vergogna da parte
della persona cara. Hai già scaricato buona parte del peso nella seduta di
gruppo o con il terapeuta. Ora puoi anche imparare la tenera arte di dire bugie
compassionevoli, anziché esprimere narcisisticamente a gran voce quello che
“senti veramente”, senza curarti di quanto possa ferire l’altro. Non grosse
bugie ma solo piccole menzogne diplomatiche, che non occultino difficoltà
veramente importanti ma che nello stesso tempo non smuovano un vespaio di questioni
irrisolte soltanto per soddisfare una cosiddetta onestà. In certi giorni ti
senti particolarmente stanco di essere una persona di sostegno e la persona
cara ti chiede: “Come va oggi?”. “Mi sento uno schifo, la mia vita non mi
appartiene più, perché non ti butti dal ponte?”: questa è una risposta
sbagliata; vera ma completamente negativa. Provate invece con questa: “Oggi
sono stanco, tesoro, ma me la cavo”. Poi cercate il gruppo di sostegno o il
terapeuta e prendetevela con loro. Non c’è il benché minimo beneficio a
scaricarsi con la persona cara, per ”onesto” che possa essere.
Vedete, una delle cose più strane che ho
imparato sull’essere una persona di sostegno abbastanza valida, è che il tuo
compito principale è quello di essere una spugna emozionale. La maggior parte
della gente pensa che il tuo compiuto sia di dare consigli, aiutare la persona
cara a risolvere i problemi, essere utile, servizievole, preparare la cena,
accompagnarla in macchina e così via. Ma tutti questi compiti sono secondari rispetto
al ruolo principale della persona di sostegno, che è quello di spugna
emozionale. La persona cara che affronta una malattia forse letale può provare
una quantità di emozioni estremamente forti, talvolta può essere totalmente
sopraffatta da emozioni come paura, terrore, collera, isteria e dolore. Il tuo
compito è di abbracciarla, stare con lei, assorbendo il maggior numero
possibile di tali emozioni. Non devi parlare, non devi dire alcunché (niente
che tu possa dire sarebbe realmente utile), non devi dare alcun consiglio
(comunque non servirebbe a molto), non devi fare niente. Devi soltanto esserci,
respirare il suo dolore, la sua paura, la sua sofferenza. Diventi una spugna.
Quando Treya si ammalò, pensai di poter
facilitare la situazione assumendo la gestione delle cose, dicendo le cose
giuste, dando il mio aiuto nella scelta delle terapie, e così via. Tutte cose
utili, ma che non centravano il bersaglio. Quando riceveva notizie
particolarmente brutte, per esempio una nuova metastasi, cominciava a piangere
ed io immediatamente dicevo cose come: “Senti, ancora non è una cosa certa,
sono necessari altri test; in ogni caso, non è detto che questo modificherà le
terapie”, eccetera. Non era questo che serviva a Treya; aveva semplicemente
bisogno che piangessi con lei, ed imparai a farlo, che provassi i suoi stessi
sentimenti in modo da aiutare a dissolverli, o ad assorbirli. Credo che ciò
avvenga a livello corporeo; non è necessario parlare, ma puoi parlare se vuoi.
In ogni caso, quando una persona amata riceve
notizie terribili, la propria reazione iniziale è di farla sentire meglio:
questa in generale è la reazione sbagliata. La prima cosa è l’empatia.
Cominciai a capire che il punto cruciale è semplicemente essere presenti per la
persona, di non temere la sua paura, il suo dolore o la sua collera; consentire
che venga fuori quello che deve venire fuori e, soprattutto, di non tentare di
liberarsi dei sentimenti dolorosi cercando di aiutare la persona, cercando di
farla “sentire meglio” o di “farla parlare” per dissipare le sue
preoccupazioni. Nel mio caso, questo atteggiamento di “aiuto” veniva fuori
soltanto quando non volevo affrontare i sentimenti di Treya o i miei; non
volevo entrare in contatto con loro in maniera semplice e diretta, ma volevo
che scomparissero. Non volevo essere una spugna, volevo essere “uno che fa
qualcosa di concreto” e migli9rare la situazione- Non volevo riconoscere la mia
impotenza nei confronti dell’ignoto. Avevo tanta paura quanto Treya.
Vedete, l’essere soltanto una spugna tende a
farti sentire inerme e inutile, perché non fai qualcosa ma stai semplicemente lì, senza fare
niente (o così sembra). E’ questo che tante persone trovano difficile da
imparare; per me è stato così. Mi ci è voluto quasi un anno per smettere di
cercare di sistemare le cose o di migliorarle, limitandomi a stare con Treya
anche quando provo sofferenza. Penso che è per questo che “nessuno è
interessato ai problemi cronici”, perché non puoi fare niente nelle situazioni croniche, se non
essere presente. Perciò quando la gente pensa di dover fare qualcosa per
aiutarti, e scopre che fare non serve a niente, si sente sconcertata, persa.
Che cosa posso fare? Niente, soltanto essere lì…
Quando qualcuno mi chiede che cosa faccio e non
mi va di chiacchierare, di solito rispondo: “Sono una moglie giapponese”, il
che produce una grande confusione nell’ascoltatore. Il punto è che, come
persona di sostegno, si presume che tu debba stare zitto e fare quello che
vuole il tuo partner: si presume che tu debba essere una brava “mogliettina”.
Questo è particolarmente duro per gli uomini;
per me lo fu. Mi occorsero circa due anni, credo, per non prendermela più per
il fatto che in qualsiasi discussione o decisione, Treya aveva la carta
vincente: “Ma io ho il cancro”. In altre parole, Treya riusciva quasi sempre ad
averla vinta e io non potevo fare altro che assecondarla, come una brava
mogliettina.
Tutto questo non m'importa più tanto. Innanzitutto non
"assecondo" automaticamente tutte le decisioni di Treya, in
particolare quando penso che derivino da valutazioni sbagliate. Prima tendevo a
concordare con lei perché sembrava avere un bisogno quasi disperato che
sostenessi le sue decisioni, anche se questo significava mentire sui miei reali
sentimenti. Adesso gestiamo le cose diversamente e se Treya deve prendere una
decisione importante, ad esempio se tentare o no una nuova terapia, esprimo la
mia opinione con decisione, anche se non concorda con la sua, fino al momento
in cui decide che cosa fare. Da quel momento in poi, concordo con lei, la
sostengo, le do il mio sostegno per la scelta fatta quanto meglio posso. Il mio
compito non è più di pungolarla, o di gettare dubbi sulla sua scelta. Ha già
abbastanza problemi e non è il caso di dubitare costantemente delle sue
decisioni…
In secondo luogo, non mi importa più di essere la buona
mogliettina per quanto riguarda le faccende quotidiane. Cucino, pulisco, lavo i
piatti, faccio il bucato, vado al supermercato. Treya scrive lettere
affascinanti, fa clisteri di caffè, inghiotte manciate di pillole ogni 2 ore,
perciò qualcuno deve svolgere tutti quei compiti noiosi: giusto?
Gli esistenzialisti hanno ragione quando affermano che devi
sostenere le scelte che hai fatto nella sfera delle tue scelte o azioni
personali. Cioè, devi puntellare le scelte che hai compiuto e che hanno
contribuito a modellare il tuo destino; essi dicono: "Noi siamo le nostre
scelte". Il mancato sostegno delle proprie scelte è chiamato
"malafede" e si ritiene che conduca all'"essere non autentico".
Per quanto mi riguarda, compresi tutto questo in maniera
molto semplice: avrei potuto andarmene, in qualsiasi momento di questo
difficile processo. Nessuno mi incatenava alle corsie di ospedale, nessuno
avrebbe minacciato la mia vita se me ne fossi andato, nessuno mi aveva costretto.
Qualche profonda parte di me aveva compiuto la scelta fondamentale di restare
con questa donna in qualsiasi situazione, qualunque cosa fosse successa, per
sempre; di accompagnarla per l'intero corso quale che ne fosse l'esito. Ma
dimenticai questa scelta in qualche momento del secondo anno della prova, anche
se era, ovviamente, una scelta che stavo tuttora compiendo, altrimenti me ne
sarei andato. Stavo dimostrando malafede, non ero autentico, non ero reale.
Nella mia cattiva fede, avevo dimenticato la scelta compiuta, perciò quasi
immediatamente piombai in un atteggiamento di biasimo e, di conseguenza, di
autocommiserazione. Ma in un modo o nell'altro tutto questo mi divenne molto
chiaro.
Non è sempre facile per me sostenere questa scelta, o le mie
scelte in generale. Non fa migliorare automaticamente la situazione. E' come
andare volontari in battaglia ed essere colpiti da una pallottola. Forse avrei
scelto liberamente di combattere, ma non di farmi sparare. Mi sento un po’
ferito e non mi piace; tuttavia mia sono presentato volontario per questo
compito – l'ho scelto io – e mi presenterei nuovamente volontario, sapendo
perfettamente che cosa comporta.
Perciò ogni giorno riconfermo la mia scelta. Ogni giorno
scelgo di nuovo. Questo impedisce che il biasimo si accumuli e rallenta
l'accumulazione dell'autocommiserazione e della colpa. E' una cosa semplice da
dire, ma nella vita reale applicare le decisioni più semplici è solitamente
molto difficile.
Oltre ad essere tornato lentamente a scrivere, ho anche ripreso
la meditazione, il cui punto essenziale è imparare come morire (rispetto al
senso del sé separato, o io). Il fatto che Treya stia affrontando una malattia
potenzialmente letale è un incentivo straordinario alla consapevolezza
meditativa. I saggi dicono che se mantieni questa consapevolezza-senza-scelta,
questo semplice essere testimone, momento per momento, la morte diventa un
momento come qualsiasi altro ed entri in relazione con essa in modo semplice e
diretto. Non rifuggi dalla morte né ti aggrappi alla vita, poiché entrambe
fondamentalmente non sono che semplici esperienze che passano.
Anche il concetto buddista del "vuoto" mi ha
aiutato molto. Il vuoto (shunyata) non
significa nulla o assenza; significa non ostruito, non impedito, spontaneo ed è
anche grossolanamente sinonimo di impermanenza o fuggevolezza (anicca). I buddisti dicono che la realtà è vuota, che non
c'è alcunché di permanente o di assolutamente durevole a cui tu possa
aggrapparti per ottenere sostegno e sicurezza. Il Sutra del Diamante afferma:
"La vita è come una bolla, un sogno, un riflesso, un miraggio". Il
punto è: non cercare di afferrare il miraggio ma, al contrario, di
"lasciare la presa", dato che in ogni caso non c'è niente che si
possa afferrare. Il cancro di Treya è un costante richiamo che la morte è un
grande lasciar andare ma non è necessario che tu attenda la morte fisica per
lasciar andare profondamente la tua presa, la tua stretta; puoi farlo in
qualsiasi momento.
Infine, per tornare al punto, i mistici sostengono che se si
vive senza scelte, cioè affidandosi a una consapevolezza senza-scelta, allora l'azione in questo mondo è priva di ego,
senza egocentrismo. Per morire rispetto al senso del sé separato (o per
trascenderlo), devi morire rispetto alle azioni egocentriche ed egoistiche. In
altre parole, devi praticare quello che i mistici chiamano "servizio
altruistico". Devi servire agli altri, senza pensare a te stesso o sperare
di ottenere lodi: ti limiti ad amare e servire; come diceva Madre Teresa
"Ama fino a quando fa male".
In altre parole, diventi una buona moglie.
In altre parole, eccomi qui, a cucinare e a lavare i piatti.
Non fraintendetemi, sono ancora ben lontano dall'essere come Madre Teresa, tuttavia considero sempre più la mia attività di persona di sostegno come parte del servizio altruistico, parte quindi della mia crescita spirituale, una sorta di meditazione attraverso l'azione, un tipo di com-passione. Non intendo neppure dire che io abbia perfezionato quest'arte; tuttora mi lamento e mugugno, mi arrabbio, do la colpa alle circostanze; tuttora io e Treya un po’ scherziamo (un po’ no) sul prenderci per mano e saltare dal ponte, mettendo fine a tutto questo scherzo.
E poi, tutto sommato, preferirei scrivere.
Adesso, come premio per aver letto tutta questa lunga lettera, e per tutte voi brave mogli ovunque siate, cedo la mia famosa ricetta di chili vegetariano:
In altre parole, diventi una buona moglie.
In altre parole, eccomi qui, a cucinare e a lavare i piatti.
Non fraintendetemi, sono ancora ben lontano dall'essere come Madre Teresa, tuttavia considero sempre più la mia attività di persona di sostegno come parte del servizio altruistico, parte quindi della mia crescita spirituale, una sorta di meditazione attraverso l'azione, un tipo di com-passione. Non intendo neppure dire che io abbia perfezionato quest'arte; tuttora mi lamento e mugugno, mi arrabbio, do la colpa alle circostanze; tuttora io e Treya un po’ scherziamo (un po’ no) sul prenderci per mano e saltare dal ponte, mettendo fine a tutto questo scherzo.
E poi, tutto sommato, preferirei scrivere.
Adesso, come premio per aver letto tutta questa lunga lettera, e per tutte voi brave mogli ovunque siate, cedo la mia famosa ricetta di chili vegetariano:
Ingredienti:
2-3 scatole di fagioli borlotti (scolati)
2 gambi di sedano tritati
2 cipolle tritate
2 peperoni verdi tritati
2-3 cucchiai di olio d'oliva
1 scatola di pomodori pelati
3-4 spicchi d'aglio
3-4 cucchiai di chili in polvere
1-2 cucchiai di cumino
2-3 cucchiai di prezzemolo fresco
2-3 cucchiai di origano
1 lattina di birra
1 tazza di anacardi
½ tazza di uvetta (facoltativa)
2-3 scatole di fagioli borlotti (scolati)
2 gambi di sedano tritati
2 cipolle tritate
2 peperoni verdi tritati
2-3 cucchiai di olio d'oliva
1 scatola di pomodori pelati
3-4 spicchi d'aglio
3-4 cucchiai di chili in polvere
1-2 cucchiai di cumino
2-3 cucchiai di prezzemolo fresco
2-3 cucchiai di origano
1 lattina di birra
1 tazza di anacardi
½ tazza di uvetta (facoltativa)
Riscaldare l'olio su una padella grande; saltare le cipolle
fino a quando sono trasparenti, poi unire il sedano, il peperone verde e
l'aglio; cuocere per circa 5 minuti. Aggiungere i pomodori (con il liquido;
schiacciare i pomodori riducendoli a pezzetti) e i fagioli; ridurre il fuoco e
lasciare sobbollire. Aggiungere la polvere di chili, il cumino, il prezzemolo,
l'origano, la birra, gli anacardi e l'uvetta (facoltativa). Fai cuocere a
fiamma bassa per quanto volete. Guarnire con prezzemolo fresco o formaggio
cheddar grattuggiato.
Non ricordo se la birra facesse parte della ricetta originale o se una volta ho lasciato cadere la mia birra nella padella mentre cucinavo; comunque sia, la birra è essenziale. Le dosi in cucchiai sono intese in cucchiai da tavola, non cucchiaini; infatti il segreto di questo chili è la grande quantità di erbe
A votre santé. Gustatelo in buona salute.
Con affetto,
Non ricordo se la birra facesse parte della ricetta originale o se una volta ho lasciato cadere la mia birra nella padella mentre cucinavo; comunque sia, la birra è essenziale. Le dosi in cucchiai sono intese in cucchiai da tavola, non cucchiaini; infatti il segreto di questo chili è la grande quantità di erbe
A votre santé. Gustatelo in buona salute.
Con affetto,
Ken
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